Tuttavia, ciò non significa che oggi gli studenti abbiano una relazione più solida con la scuola, intesa non solo come didattica. Da psicologi, abbiamo infatti dovuto constatare che i ragazzi possono entrare in crisi per ragioni che non c’entrano con la difficoltà di apprendimento o con la carenza di motivazione, ma con altri aspetti della vita scolastica che interferiscono con la possibilità di mantenere una frequenza regolare. Oggi ci sembrano più in difficoltà con l’idea di calcare il palcoscenico-classe, e quindi di esibire il Sé adolescenziale davanti al gruppo dei pari, che non con l’apprendimento.
In altre parole, nei ragazzi c’è una componente di sofferenza psicologica che emerge a scuola ma che è legata più alla fatica di crescere che alla difficoltà di studiare?
Oltre alla relazione con il dovere c’è in gioco la relazione con gli insegnanti, che rappresentano gli adulti, e la relazione con un gruppo di coetanei che osservano. A scuola c’è quindi molto bisogno di lavorare psicologicamente per favorire non solo l’apprendimento, ma anche la relazione con quella componente di adulti e di ragazzi lì presenti.
Di per sé, il processo di emancipazione adolescenziale innesca nel mondo interno una serie di istigazioni a prendere le distanze dal mondo degli adulti: innanzitutto dai propri familiari, ma anche dagli insegnanti, che per una legge di somiglianza sono considerati degli adulti che chiedono, come una sorta di “genitori scolastici”. Pertanto, il compito di separazione può essere una delle ragioni per cui, se il processo ha qualche inciampo, si può simbolicamente attaccare la scuola. In certi casi i ragazzi faticano a usare l’aggressività emancipativa per staccarsi dalla famiglia, e quindi scelgono inconsciamente di attaccarne un significante, per ragioni che hanno quindi poco a che fare col compito scolastico.
Il secondo asse che può interferire gravemente con la possibilità di frequentare la scuola è la relazione con i coetanei. A partire dalla fine delle medie, quando c’è una spinta magnetica verso il gruppo, si struttura una dipendenza fisiologica dallo sguardo dei pari. Dentro al gruppo ci sono infatti potenzialmente gli amici, gli amori e tutti i nuovi oggetti di interesse che aiutano a svincolarsi dagli adulti per proseguire la marcia evolutiva. Questa capacità attrattiva del gruppo pone però anche una serie di problemi, perché l’arruolamento – per l’adolescente – deve svolgersi senza intoppi: il gruppo lo deve accettare, e lui deve avere tutte le carte in regola per essere accolto come membro a tutti gli effetti.
Se invece compaiono degli ostacoli, cioè se l’adolescente sente di non poter essere amabile, di non poter acquisire le competenze che – oggi più che mai – sono essenziali per avere quel minimo successo sociale che consente di stare in classe con una sufficiente autostima, la mente entra in cortocircuito. Le mortificazioni subite dal Sé nascente possono anche essere casuali o marginali, ma se le cose per qualche ragione vanno male la scuola diventa un luogo assai pericoloso.
È frequente che l’adolescente dica ai grandi (spesso credendoci lui stesso) che il problema sono le verifiche, le prove scolastiche; invece la prova impossibile da sostenere è il confronto con lo sguardo dei pari. All’improvviso diventa difficilissimo stare di fronte agli altri: magari proprio nel momento dell’interrogazione, in cui l’adolescente deve rispondere alle domande alla lavagna, e il problema non è che non sa cosa dire al professore, ma il fatto che mentre è lì, esposto al verdetto del vero giudice – che è il gruppo classe –, può risultare sbagliato, inadeguato nella postura, nel tono di voce, nell’abbigliamento o in qualunque altra caratteristica che si ritenga necessaria a ottenere il diritto di cittadinanza tra i pari.
Da qui possono svilupparsi vere e proprie fobie nei confronti della scuola, che – pur avendo poco a che fare con il compito scolastico in sé – costringono l’adolescente ad abbandonare il banco e ritirarsi dalle scene.
Disertare la scuola nutre ulteriormente i sentimenti di vergogna dell’adolescente, che si sente diverso perché non fa le cose che dovrebbero fare tutti, anche se le vere ragioni dell’impresentabilità non sono le assenze scolastiche, ma riguardano la percezione di inadeguatezza del Sé. Un’inadeguatezza che si gioca soprattutto sul fronte della propria capacità di essere sufficientemente maschio o femmina secondo la modalità prescritta dalle complesse, e per noi adulti indecifrabili, regole implicite sancite dal gruppo.
Essendo una grande cassa di risonanza della propria immagine, è ovvio che per gli adolescenti in fuga dallo sguardo dall’altro, determinati a non esporsi mai, i social rappresentino un elemento che aggrava la sofferenza e sottolinea il ritiro. I ragazzi sanno di dover debuttare sia sulla scena sociale sia sulla scena virtuale, e la diserzione di entrambe non può che far crescere l’angoscia.
D’altra parte, però, i social sono anche un fattore protettivo. Ci sono ragazzi che stanno fuori dalla vita sociale per anni, durante le superiori, e quando diventa finalmente possibile riaffacciarsi sulla scena sono grati del fatto che nella loro reclusione c’è stato almeno Internet a costituire un residuo legame con l’esterno. Negli anni della solitudine autoimposta, la rete ha permesso loro di continuare a sbirciare le vite dei coetanei, di studiare l’amore, di capire le cose che succedevano nel mondo: in altre parole, ha costituito un altrove in cui hanno potuto crescere senza esporsi eccessivamente, fintanto che la crisi evolutiva non si è attenuata.
È nostro compito, quindi, studiare attentamente il singolo caso, cercare di capire come quello specifico adolescente usa il ritiro scolastico o sociale, che tipo di difficoltà sta tentando di risolvere attraverso l’autoreclusione, perché è solo comprendendo il messaggio evolutivo che lui ha demandato al sintomo che possiamo aiutarlo a risolvere il problema.
Volendo tuttavia dare qualche indicazione generale, ritengo che la prima buona prassi sia evitare la tentazione di contrastare il ritiro, per quanto possa apparire paradossale. Dobbiamo infatti ricordare che il ritiro è la punta di un iceberg di marca fobica che impedisce al soggetto di muoversi, pertanto ogni istigazione a vincere la paura è vissuta come una forzatura ed è destinata a fallire. L’adolescente non è pigro, né lazzarone, ha solo subito, suo malgrado, una battuta d’arresto. Conviene quindi costruire con lui una forma di solidarietà, senza giudizio né imposizioni.
Gli adulti faticano molto ad accettare che non si vada a scuola perché sono cresciuti in un mondo diverso, dov’era sostanzialmente impossibile dire di no al Super io. Sono quindi inclini a leggere la resa dell’adolescente come una manifestazione d’inerzia, o un attacco passivo-aggressivo alle regole. Del resto, perfino le posture del corpo del ragazzo ritirato inneggiano all’indolenza (dorme per ore, sta sdraiato a pancia in su, è spento, gioca ai videogiochi mentre tutti gli altri vanno a scuola). Di fronte a una tale diserzione del dovere, gli adulti sentono di aver fallito il proprio compito educativo, ovvero insegnare ai giovani che nella vita il dovere c’è, e finiscono così per riversare sul figlio la rabbia e la delusione che ne conseguono.
La rappresentazione degli adulti è del tutto legittima, ma è di fondo errata, perché in realtà il soggetto paralizzato è abitato da un conflitto invisibile. È vero che il rifiuto ad andare sembra avere la meglio, ma non dobbiamo dimenticare che nella mente dell’adolescente c’è anche una spinta fortissima di senso contrario: se potesse, il ragazzo sarebbe il primo a voler andare a scuola e fare il proprio dovere. Gli adulti devono quindi trattenersi dalla tentazione di spingerlo o di ricordargli il dovere disatteso, perché il movimento naturale verso la crescita è in realtà intatto, è ostacolato ma c’è, e dobbiamo dargli il tempo di trovare un sentiero alternativo.
Tuttavia, molto spesso di fronte al problema della mancata frequenza e della carenza di valutazioni la scuola è tentata di assumere due posizioni estreme, entrambe comprensibili ma poco funzionali alla soluzione del problema: o un atteggiamento di stampo paterno, che richiama al principio di realtà e al dovere, ventilando bocciature a causa delle assenze e dei voti mancati, oppure un atteggiamento di stampo materno che – al contrario – spinge ad andare incontro al ragazzo in tutti i modi, offrendogli qualunque deroga e facilitazione a fronte della sofferenza manifestata.
Nella mia esperienza clinica, nessuno dei due assetti produce gli effetti sperati. La strada migliore, quella che fa la differenza in termini di esito, è facilitare in ogni modo l’assunzione di consapevolezza da parte del ragazzo autorecluso. Da questo punto di vista, sia atteggiamenti troppo protettivi sia atteggiamenti troppo normativi tendono a spostare il focus sugli adulti, come se fossero loro a poter risolvere la questione. Ma il problema non è coccolare e proteggere o punire ed essere severi: la vera sfida è affiancare il ragazzo e aiutarlo ad assumersi la responsabilità rispetto a quello che accade. E dico responsabilità, non colpa, nel senso che si tratta solo di assumere su di sé la realtà degli accadimenti a cui non possiamo porre immediato rimedio.
È sempre buona cosa che i genitori comunichino ai professori la comparsa del ritiro, ma poi è opportuno che il ragazzo, aiutato dallo psicologo, riesca a parlare con loro – e con i compagni – in prima persona. E la scuola a questo punto può fargli presente quali sono le regole e le conseguenze dell’abbandono del banco, perché è giusto che lui le ascolti dagli adulti deputati.
Non sono quindi genitori e professori che devono decidere il da farsi: gli adulti possono solo mettersi al fianco dei ragazzi per aiutarli, soprattutto quando sono piccoli, a dire “ho paura, mi vergogno, mi viene il panico, mi viene il mal di pancia”, ma sono i ragazzi che devono riuscire a comunicare la natura della loro sofferenza. Questa è la via maestra: i professori e la scuola in genere dovrebbero restare ingaggiati nella relazione con lo studente, continuando a fare il loro dovere senza esasperare né l’atteggiamento normativo né quello assolutorio, ma sarebbe una grande conquista se fosse l’adolescente stesso a dar voce al proprio disagio, così che tutti possano comprendere più profondamente le ragioni affettive sottese al ritiro.




